a cura di ICOVER Consulting Srl
Il previgente codice degli appalti (D.lgs. 50/2016), fortemente improntato all’osservanza delle norme anticorruzione e al contenimento della spesa, poneva l’accento sul rispetto di tempistiche e procedure ben delineate (e potenzialmente molto rigide) e pesanti profili di responsabilità a carico del RUP.
Nonostante alcuni interventi di “manutenzione”, quali ad esempio il decreto c.d. Sblocca Cantieri del 2019, il codice si è rivelato non essere completamente in linea con le Direttive Europee (2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE) in materia. Il quadro normativo di riferimento, inoltre, allo scoppiare della pandemia – che richiedeva una risposta rapida, efficace ed efficiente, anche e soprattutto in tema di approvvigionamenti, (si pensi al settore della sanità) – si è rivelato troppo rigido, tanto da rendere necessaria l’adozione dei “decreti semplificazioni” che hanno ampliato le maglie per l’affidamento diretto, semplificato le procedure amministrative nell’ottica del miglioramento della performance della Pubblica Amministrazione e apportato deroghe significative in tema di responsabilità dei pubblici dipendenti (RUP inclusi). Non da ultimo, il “vecchio codice” non ha retto alla prova del cambiamento culturale in atto, relativamente all’impiego degli strumenti tecnologici e veicolato da nuovi principi alla base dell’attività amministrativa quali, ad esempio, il risultato, la fiducia, l’accesso al mercato, la buona fede e la tutela dell’affidamento che sembrerebbero superare il pregiudizio verso l’operato degli Operatori Economici e dei pubblici funzionari, volendo avviare una collaborazione fattiva tra pubblica amministrazione e mercato per perseguimento dell’interesse pubblico.
Da quanto appena illustrato, emerge un cambio di passo per il tramite del nuovo “codice degli appalti” – D. Lgs. 36/2023 – che vede l’intervento pubblico come un progetto che deve portare dei risultati utili per la collettività, quali l’esecuzione tempestiva e il migliore rapporto qualità/prezzo. Il tutto operando nella cornice dei principi alla base dell’attività amministrativa quali la trasparenza, la legalità, il buon andamento della cosa pubblica. Il nuovo codice attribuisce al RUP un ruolo chiave in quest’ottica.
In tale contesto la figura del RUP è stata investita di nuove responsabilità e competenze anche rispetto ad eventuali contenziosi che si potrebbero generare in tutte le diverse fasi del procedimento.
Ruolo del RUP nella gestione del Contenzioso (RISERVE)
L’istituto delle riserve negli appalti pubblici è stato, più di molti altri, tormentato dallo stravolgimento della disciplina nelle diverse stagioni di ricodificazione della materia a cui si è assistito nell’ultimo quarto di secolo. In questo, il nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023) non è certo una eccezione. Nel corso del tempo, si è passati dalla rigida procedimentalizzazione tracciata dal d.m. n. 45/2000 e dal successivo d.P.R. n. 207/2010 – figlio di una chiara esigenza di consentire all’amministrazione appaltante il costante controllo della spesa così da poter tempestivamente adottare ogni possibile determinazione (così Cass. civ., Sez. I, 31.12.2020, n. 29988; Cass. civ., Sez. I, 5.9.2018, n. 21656) -, per giungere con il codice del 2016 ad una totale delegificazione. Nella vigenza del d.lgs. 50/2016, infatti, abbiamo assistito alla stagione delle c.d. “riserve fai da te”, ossia una disciplina delle riserve interamente rimessa alla discrezionalità delle stazioni appaltanti (art. 217 comma 17 d.lgs. 50/2016 e art. 9 d.m. 49/2018).
Non può certo negarsi che un simile tentativo di implementazione di meccanismi di soft law – ampiamente declamato negli intenti del legislatore di cui al codice uscente – anche nella fase esecutiva, abbia fallito. Partiamo dunque dal dato strettamente normativo: nel nuovo codice dei contratti pubblici, l’istituto della riserva torna a trovare casa in un comparto normativo certo, l’art. 115, che rinvia a sua volta all’art. 7 dell’All. II.14 per la definizione di ulteriori aspetti di dettaglio. La nuova disciplina non è tuttavia esente da spunti critici e da perplessità, che pongono non pochi interrogativi sul piano pratico ed operativo e che, anche questa volta, dovranno attendere di finire sugli importanti banchi della prassi operativa e della giurisprudenza per esser risolti.
Il primo interrogativo che balza subito all’occhio è il seguente: è forse scomparso l’onere/obbligo di riserva per il caso di anomalo andamento dei lavori?
Ciò è quanto parrebbe ad una lettura del tassativo elenco fornito dall’art. 7, comma 1, All. II.14, in cui sono menzionate tutte quelle circostanze che non possono dar luogo a riserva. Tra queste, alla lett. e) spiccano “le domande di risarcimento motivate da comportamenti della stazione appaltante o da circostanza a quest’ultima riferibili”.
Nel tradizionale concetto di riserva per “anomalo andamento” rientra, invero, proprio la richiesta risarcitoria derivante da sottoproduzione o mancata produzione riconducibile a comportamenti e circostanze riferibili alla S.A. In altre
parole, chi non iscriverebbe riserva nel caso in cui si verifichino rallentamenti nel cantiere, che comportano un improduttivo vincolo di materiali e mezzi, causato dal rinvenimento di un reperto archeologico non segnalato nel progetto (tipica ipotesi, peraltro, di carenza progettuale imputabile alla SA)?
Il rischio, alla luce della nuova disposizione, è tuttavia che l’appaltatore che versa in una simile circostanza non apponga la riserva, quando invece il consiglio sarebbe certamente il contrario, considerando decenni di prassi univoca utili a non incorrere in pericolose ed irreversibili decadenze.
La soprese che si celano dietro l’elenco di cui all’art. 7 comma 1 dell’All. II.14 non finiscono qui.
Siamo abituati, anche qui sulla scia di una prassi granitica ed ultra decennale, a ritenere esclusa dagli stringenti obblighi tipici della disciplina delle riserve, la tematica dei mancati pagamenti da parte della S.A.: si è sempre stati portati a ritenere che un simile atto costituisce il venir meno al principale obbligo negoziale che ricade in capo alla controparte pubblica e che, più di ogni altro, è in grado di alterare l’equilibro del contratto d’appalto. Ebbene, oggi l’art. 7, comma 1, lett. c) ci dice chiaramente che non è oggetto di riserva “il pagamento degli interessi moratori per ritardo nei pagamenti”, ma nulla viene specificato in merito alla domanda relativa al pagamento delle somme principali a cui gli interessi sono legati. Verrebbe così da pensare che nell’assetto del nuovo codice, la domanda per il pagamento delle somme principali debba essere oggetto di riserva.
Ultimo elemento – ma non certo per importanza – assolutamente controverso della recente novella legislativa in tema di riserve sembra essere la mancata menzione del termine di 15 giorni per l’esplicitazione delle riserve.
Sebbene si tratti di un tema strettamente legato alle riserve contabili – per le quali è sempre consigliata l’iscrizione ed esplicazione contestuale su altri documenti dell’appalto in assenza di una declinazione specifica della previsione legislativa ad oggetto il registro di contabilità – si tratta pur sempre delle riserve che, in un certo senso, sono quelle più importanti. Nel vecchio codice del 2016, in assenza di un termine esplicito stabilito dalla legge per l’esplicitazione delle riserve, erano sorti dei dubbi circa la legittimità, anche costituzionale, di una interpretazione troppo severa e restrittiva del potere discrezionale detenuto in merito della S.A., in via del tutto sproporzionata avrebbero potuto individuare termini assolutamente restrittivi ed insufficienti, con conseguente lesione degli interessi di una delle parti del contratto d’appalto, segnatamente l’appaltatore.
Nel nuovo assetto normativo, il rischio che l’appaltatore venga pregiudicato e assuma, quasi di diritto, la veste del soggetto leso, appare una certezza. Non vi è più una facoltà alla S.A. di decidere i tempi di esplicazione e di indicarli nel bando, ma sembra proprio che la dilazione precedentemente concessa per l’esplicazione sia del tutto scomparsa. La conseguenza, sembra essere dunque che all’iscrizione della riserva debba fare contestuale seguito l’esplicazione (e quantificazione), fatte salve le ipotesi di cui al comma 2 lett. a) dell’art. 7 per cui “la riserva stessa sia motivata con riferimento a fatti continuativi”.
Contenzioso e pre-contenzioso nella condotta dei Lavori Pubblici
Il Nuovo Codice cerca di affermare una nuova modalità di gestione delle opere pubbliche superando il formalismo paralizzante che ne ha spesso inibito la realizzazione o il completamento e riaffermando la necessità (oltre che la legittimità) di scelte operative discrezionali ispirate ai “principi” finalistici dell’attività della Pubblica Amministrazione. Affermazione condivisibile che però sconta un ormai atavico e sclerotizzato modus operandi e un ancor incompleto quadro di garanzie collaterali a questo innovativo modo di procedere.
Tra le “garanzie collaterali” non sono certo da trascurare le sedi ultime di valutazione dei comportamenti auspicati e tenuti e “il come” e “il chi” in quelle sedi sosterrà/valuterà le scelte discrezionali già fatte. Il Nuovo Codice si è posto il fondamentale problema della continuità dei lavori pubblici non solo e non tanto in fase di aggiudicazione quanto per il loro completamento una volta avviati.
In buona sostanza uno dei temi centrali è stato quello di evitare l’interruzione in corso d’opera che purtroppo ha caratterizzato molte opere che, pur affidate, non sono state completate.
Complice il contenzioso che sorge tra le parti.
Il contenzioso può nascere in qualsiasi momento delle fasi di realizzazione di un’opera pubblica ancor prima dell’instaurarsi di un rapporto contrattuale, ma mentre il contenzioso che si instaura prima dell’inizio dei lavori può sì comportare danni da ritardi, ma disquisisce sulle “carte”, quello che nasce a “cantieri aperti” ha con sé anche l’aggravante dei danni materiali da “interruzione”; qui la tempestività della risoluzione ha immediati riflessi sulla quantificazione degli oneri in discussione (che si aggravano giorno per giorno). Per questo il Legislatore ha posto
attenzione alle modalità di risoluzione del contenzioso in fase esecutiva richiamando espressamente (e specializzando) istituti già noti al Codice Civile e addirittura “inventandone” altri.
Il ricorso giurisdizionale come ultima spiaggia
Risolvere la questione in sede giudiziale comporta tempi lunghi e mancato completamento (e fruizione) dell’opera per cui appare fondamentale poter “gestire” la conflittualità fuori dai tribunali.
E’ appena il caso di rammentare che in sede giudiziale il parametro della disamina sarà la mera legittimità, scevra da ogni valutazione discrezionale; questa osservazione – apparentemente banale – è invece significativa se teniamo conto che il Nuovo Codice si fonda sull’applicazione dei principi quali metodo operativo e di interpretazione della legittimità. In quest’ottica la gestione del pre-contenzioso giurisdizionale (orientato appunto ad evitare sia il ricorso al Tribunale che l’interruzione dei lavori) assume un rilievo particolare. Perché cerca di mantenere nel campo di gioco degli attori della realizzazione dell’opera la valutazione del loro operato. Passare la palla al Giudice significa far giocare la partita ad un Soggetto (certamente autorevole e competente, ma) estraneo, non coinvolto nella finalità della conclusione dell’opera (principio del risultato) il cui unico metro di giudizio è il formalismo giuridico.